La truffa del Project Financing (I parte)
Mai come in questi ultimi anni nominato e
acclamato come salvifico puntello della stentata ripartenza economica
italiana, il project financing è in realtà assai di rado spiegato nei
suoi elementi costitutivi, ancor meno fatto oggetto di una critica seria
quale strumento in quanto tale. Ma che cos’è questa creatura
finanziaria che passa spesso sotto la dicitura di “aiuto dei privati”?
Per project finance si intende
“un’operazione di finanziamento di una specifica iniziativa economica,
realizzata tramite un’entità costituita ad hoc, in cui i flussi di cassa
derivanti dalla gestione rappresentano la fonte primaria per la
copertura del servizio del debito” (Nevitt, Fabozzi, 2000). In cui,
cioè, i flussi dei ricavi derivanti dalla gestione del progetto
realizzato sono sufficienti, del tutto o in parte, a coprire i costi di
gestione, rimborsare il prestito bancario e remunerare il capitale
investito.
Il privato realizza quindi
un’infrastruttura e ne ottiene la gestione per un tot di anni,
rientrando così dell’investimento fatto. Perché ciò sia possibile, è
però necessario costituire una struttura contrattuale estremamente
complessa, articolata e costosa. Una volta individuato, infatti, un pool
di imprese interessate all’opera, esse formano una apposita Società di progetto (Special Purpose Vehicle) la quale ha come unico scopo sociale quello di realizzare e gestire il progetto, in modo che i flussi di cassa legati ad esso rimangano nettamente separati dai patrimoni delle imprese o degli individui che lo promuovono.
Questo permette ai privati di assumersi solamente i rischi connessi
all’iniziativa in questione, senza mettere in pericolo le loro attività
principali, e ne limita di conseguenza la responsabilità, lasciando
inalterata la loro capacità di indebitamento bancario. Questa SPV, vero
cuore pulsante del processo, può essere costituita in forma totalmente
privata oppure in forma mista con la partecipazione di soggetti pubblici
e privati, creando l’incongruenza per cui le Pubbliche
Amministrazioni si trovano a svolgere il duplice ruolo di apportare
capitale di rischio e allo stesso tempo di monitorare nell’interesse pubblico le attività di realizzazione e gestione dell’opera.
Comincia quindi la fase più lunga e travagliata del processo, consistente nella stesura del contratto vero e proprio, in cui i soggetti coinvolti
(1 i promotori, ovvero le imprese costruttrici; 2 le banche che
concedono il prestito; 3 gli azionisti, 4 la Società di progetto,
privata o partecipata; 5 la Pubblica Amministrazione) devono negoziare
tra loro la migliore ripartizione dei rischi. Le principali garanzie connesse al project finance sono quindi di natura contrattuale piuttosto che reale,
tant’è vero che il progetto viene valutato dai finanziatori
principalmente per la sua capacità di generare ricavi futuri, piuttosto
che per la solidità economico-patrimoniale dell’impresa a cui devono
essere concessi i finanziamenti, come avviene di solito. Serve perciò a
monte la realizzazione di uno Studio di Fattibilità, che calcoli la
redditività del progetto, il quale essendo a medio-lungo termine non può
che avere un carattere meramente ipotetico.
In cosa diverge questo tipo di struttura finanziaria dal più tradizionale sistema dell’appalto? Innanzitutto il contratto di concessione su
cui esso si fonda prospetta come prestazione fondamentale non più
l’esecuzione dei lavori, ma la gestione dell’opera prodotta. Se infatti
nell’appalto il corrispettivo dei lavori è un prezzo preciso, concordato
nel contratto; nella concessione il corrispettivo è unicamente il diritto di gestire l’opera (o tale diritto accompagnato da un prezzo).
In secondo luogo nell’appalto si ha un rischio d’impresa, il quale
implica la capacità da parte delle imprese costruttrici di organizzare
al meglio i fattori della produzione in modo da ricavarne degli utili;
nella concessione invece il rischio è di mercato, e deve essere calcolato nel contratto come variabile futura (20-30 anni) attraverso stime, ovvero ipotesi basate spesso su criteri arbitrari o non aggiornati (come spesso accade riguardo alle stime di traffico).
Nato intorno al 1920 in Nord America per
finanziare l’estrazione del petrolio e diffusosi rapidamente nel settore
privato, questo strumento è entrato negli ultimi anni prepotentemente
anche nell’ambito delle opere pubbliche, divenendone fondamentale
propulsore, in quello che si conosce come partenariato pubblico-privato (PPPC). I progetti realizzati secondo questa modalità sono di tre tipi:
- Opere “calde”, cioè progetti capaci di generare autonomamente reddito in base ai ricavi da utenza, i cui ricavi consentono cioè al settore privato un integrale recupero dei costi dell’investimento fatto nell’arco della durata della concessione (es. autostrade, parcheggi). Qui il coinvolgimento del settore pubblico si limita all’individuazione delle condizioni necessarie alla realizzazione del progetto (pianificazione, autorizzazioni, indizione bandi di gara, assistenza amministrativa).
- Opere “tiepide”, che richiedono una parte di contribuzione pubblica giustificata dal fatto che, pur essendo i ricavi commerciali da utenza di per se insufficienti a generare al privato un adeguato ritorno economico (ad esempio perché le tariffe/i pedaggi vengono mantenuti bassi), la loro realizzazione genera rilevanti esternalità positive in termini di benefici sociali indotti dall’infrastruttura.
- Opere “fredde”, in cui il privato fornisce direttamente servizi alla pubblica amministrazione (es. carceri, ospedali, scuole). Si tratta di opere in cui il privato che le realizza e gestisce ricava il proprio guadagno esclusivamente (o principalmente) dai pagamenti che la PA effettua su base commerciale, ovvero sulla qualità e sui volumi delle prestazioni che acquista.
Il project financing si presenta come il prodotto per eccellenza del modello economico-finanziario dello stato post-keynesiano,
in cui ad un rapporto diretto di produzione si sostituisce la
frantumazione e l’esternalizzazione (outsourcing) delle attività, dove i
cicli di lavorazione vengono affidati con contratti di appalto a
subfornitori autonomi. Al lavoro dipendente e a tempo indeterminato che
caratterizzava le imprese fordiste, subentra così una tipologia
contrattuale in cui la flessibilità (e quindi la precarietà) è totale e
il rapporto con i lavoratori viene gestito dalle singole ditte
appaltatrici. Il risultato è la scomposizione del processo produttivo in
molteplici sottostrutture fino a formare un’enorme ragnatela di
appalti e subappalti, governata da un centro che scarica sia la
competizione che il rischio d’impresa verso il basso (la grande
impresa sulla media impresa, la media sulla piccola, la piccola sul
lavoratore attraverso contratti atipici), esercitando una pressione
crescente sui settori più deboli. Il contatto tra il centro, il grande
ragno finanziario, ed i lavoratori si fa così sempre più allentato,
sempre più effimero e deresponsabilizzato, consentendo al grande
capitale, liberatosi dal rischio d’impresa, di dedicarsi ad attività di
speculazione finanziaria.
Tratto da: https://larcipelago.wordpress.com/2014/09/20/la-truffa-del-project-financing-i-parte/
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