La truffa del project financing (II parte)

Perché il project financing italiano è (tristemente) unico nel mondo 
Nell’ordinamento italiano il project financing è stato introdotto per la prima volta con la legge 11 novembre 1998 n. 415 (legge Merloni-ter), e più volte modificato negli anni successivi in modo da rendere l’istituto più flessibile e da sottrarlo alle procedure di infrazione che l’UE ha minacciato di infliggergli dati i dubbi sulla sua compatibilità con le normative comunitarie sulla concorrenza di mercato.
Nel 2001 la Legge Obiettivo, al fine di incentivare e velocizzare la costruzione di infrastrutture in Italia in modo da stimolarne la ripresa economica (equazione tutt’altro che dimostrata e in assoluta controtendenza rispetto alle direttive europee e ai protocolli di difesa dell’ambiente), ritorna sul project financing. Essa consolida un approccio emergenziale ai lavori pubblici, secondo il quale un elenco di ben 250 infrastrutture connesse alla mobilità e ai trasporti viene dichiarato di interesse nazionale strategico e pertanto blindato dalle obiezioni di comitati locali e ambientalisti e dotato di procedure normative e finanziarie accelerate, nonché soggetto a valutazioni di impatto ambientale fortemente semplificate. Un ammontare di investimenti pari a 125,858 miliardi di euro – comprendente opere quali il Ponte sullo Stretto, la Tav, il Passante di Mestre, la Pedemontana veneta e lombarda, il Mose – viene di fatto sottratto a qualsiasi procedimento democratico in un processo decisionale fortemente centralizzato che esclude le prerogative di Regioni ed Enti locali. Per di più senza configurare alcuna politica mirata a medio termine nel campo dei trasporti né selezionare alcuna priorità in base alle risorse effettivamente disponibili. In quest’ottica anche la legge Merloni viene modificata:
  • è eliminato il vincolo di disponibilità, ovvero il soggetto pubblico che commissiona un’opera e prima non poteva dare al privato un contributo superiore al 50% del valore dell’opera stessa, ora può arrivare a contribuire fino al 100%, per esempio attraverso canoni, di fatto nullificando, nonostante la retorica, l’apporto del denaro privato ed estendendo gli oneri del pubblico;
  • è eliminato il vincolo dei 30 anni di durata massima della concessione, misura che ostacola la creazione di un mercato realmente concorrenziale;
  • è istituita la figura del contraente generale, altro unicum italiano utilizzato per esempio nel modello Tav (Tav Spa). Ad esso spetta la progettazione e l’esecuzione dell’opera, ma viene escluso dalla sua gestione, in un contratto che pertanto non sarebbe un’effettiva concessione. Una volta realizzata l’opera, esso viene pagato dallo Stato e non ha alcuna responsabilità sulla gestione, né sulla manutenzione della stessa, motivo per cui è nel suo interesse far lievitare man mano i costi del progetto esecutivo, non finire in tempi rapidi i lavori e non investire sulla loro qualità.
Nel 2006 il Codice dei Contratti pubblici ha ridisciplinato la forma del project financing, seguito successivamente da altri tre decreti correttivi. Il più importante di essi, il cosiddetto Terzo Correttivo, ne ha ridefinito per intero l’iter modificando l’articolo 153 con il comma 19, che introduce la cosiddetta “procedura ad iniziativa privata”, elemento che non è presente in nessun altro ordinamento europeo o internazionale. Mentre nella procedura tradizionale l’amministrazione aggiudicatrice poneva a base di gara un progetto di livello almeno preliminare, per realizzare il quale le imprese erano invitate a concorrere, d’ora in poi viene delegata ai soggetti privati anche l’intera progettazione dell’opera. Dalla costruzione alla vera e propria progettazione dell’infrastruttura, non solo quella definitiva ed esecutiva, ma anche quella preliminare. Non è quindi più l’amministrazione pubblica a definire nelle sue linee d’indirizzo delle necessità (infrastrutturali, di servizi) per colmare le quali ricorrere all’intervento dei privati, ma sono i privati a presentare agli enti pubblici delle proposte relative alla realizzazione in concessione di lavori di pubblica utilità. I grandi gruppi privati vengono così invitati a “farsi Stato”, individuando le pubbliche necessità, progettando in completa autonomia e, secondo l’articolo 157, comma 1, perfino autorizzati a emettere obbligazioni e titoli di debito al fine di realizzare l’infrastruttura o il servizio in questione. Di fronte a questo, lo Stato ha tre mesi di tempo per valutare la pubblica utilità dell’opera e acconsentire (o meno) alla sua realizzazione
Nel 2011 altre modifiche vengono apportate al project financing dal cosiddetto “Decreto Sviluppo”. Esso prevede infatti che sia consentito ai privati di ricorrere alla finanza di progetto anche per le opere non presenti nella programmazione triennale delle pubbliche amministrazioni. Ciò significa introdurre una nuova procedura di aggiudicazione, “aprogrammatica”, su iniziativa privata  che permette di inserire nell’elenco annuale delle opere da realizzare in project financing anche infrastrutture prive di progettazione preliminare e sulla base del solo studio di fattibilità. Un ulteriore incentivo all’iniziativa privata, cui corrisponde inevitabilmente una riduzione drastica delle prerogative e delle competenze del soggetto pubblico, sempre meno in grado di valutare i progetti presentatigli soprattutto in confronto alla perizia tecnica delle grandi imprese di costruzioni.
Secondo l’indagine condotta dall’ANCE nel 2012, nel nostro paese il project financing per le opere pubbliche  aumenta esponenzialmente (dal 13,9% del 2003 al 42,3% del 2011), ma a questa crescita non corrisponde altrettanto dinamismo nell’effettiva realizzazione delle opere. Infatti solo per il 38% delle gare pubblicate sono stati avviati i cantieri, mentre la gestione è stata attivata solo per il 25% dei bandi pubblicati. Le gare bandite hanno quindi un’alta mortalità ed in molti casi le proposte degli enti pubblici non corrispondono ad effettive esigenze di mercato. Non solo le procedure di pf non risultano particolarmente efficienti né efficaci, ma ancor meno rapide. Numerosi sono i momenti di rallentamento della procedura, che comportano un aumento della possibilità che salti l’intesa contrattuale e un aumento dei costi preventivati. Principale causa di rallentamento delle operazioni sono i contenziosi (24,2% dei casi), dovuti a una carente definizione delle clausole contrattuali, a presunte inadempienze del concessionario o ad altre problematiche quali le operazioni di esproprio dei terreni o il dissenso delle popolazioni locali, che può quindi avere un’incidenza reale nell’inceppare l’intero meccanismo.
Come rileva lo stesso rapporto, negli ultimi vent’anni il coinvolgimento dei capitali privati per rispondere alle necessità pubbliche è stato invocato da tutti i governi che si sono succeduti come la soluzione più semplice (se non l’unica) alla scarsità di risorse pubbliche da destinare alla modernizzazione del Paese. Da ultimo il Programma Infrastrutture Strategiche di settembre 2012 sottolinea come la partecipazione pubblica alla realizzazione di infrastrutture in Italia non potrà superare il 30% degli investimenti. Tuttavia è qui l’errore: il pf non può essere considerato un semplice surrogato di risorse per ogni necessità infrastrutturale. Alla base di un’operazione di pf, infatti, c’è la necessità per i privati coinvolti di veder ripagato l’investimento iniziale con i ricavi della gestione, per cui solo per le opere che offrano simili garanzie reddituali è opportuno ricorrere a questa collaborazione.
In Italia, invece, si è ricorso massicciamente al pf anche per quelle opere che non prevedono ricavi sufficienti, utilizzando il denaro privato come una sorta di anticipo, accettando quindi il finanziamento immediato senza considerare affatto i costi futuri. Le grandi opere, dietro cui si muovono ingenti capitali e quindi grandi interessi, sono la protesi dell’incapacità totale da parte di governi ed enti pubblici di elaborare una visione del futuro, anche solo a medio termine. Queste architetture finanziarie sono infatti colossali meccanismi per scavare il debito pubblico occultandolo nella contabilità di società di diritto privato. Un debito sempre più grande, occultato perché i debiti connessi al pf non figurano nel rapporto ufficiale debito/pil in quanto inseriti nelle contabilità di società private, le Società di Progetto, e pertanto molto più difficili da controllare, esclusi dai vincoli del Patto di Stabilità, ma destinati prima o poi ad emergere, ad essere riversati nel debito pubblico facendolo salire alle stelle e ad essere scaricati sulle spalle di tutti noi.
Ma come funziona questa vera e propria truffa? È lo Stato a fornire le garanzie ultime nel caso dei grandi investimenti, clausola senza la quale gli imprenditori non potrebbero rientrare dei loro investimenti e gli istituti bancari non concederebbero i finanziamenti, se non per quelle opere la cui redditività è interamente garantita dai ricavi da utenza. L’assunzione di rischio da parte del privato è quindi in realtà minimale, motivo per cui l’Italia è stata sanzionata dall’Eurostat nel 2005. Secondo quest’ultima infatti è consentito non includere nel bilancio pubblico le somme relative a progetti di partenariato pubblico-privato solamente qualora il privato dimostri di assumersi il rischio di costruzione (ritardi, aumento dei costi, inconvenienti tecnici, mancato compimento dell’opera) e almeno uno di questi altri rischi: quello di disponibilità, legato alla capacità da parte del concessionario di fornire le prestazioni pattuite nel contratto, e il rischio di domanda, legato alla variabilità della domanda nel mercato.
Nonostante queste condizioni siano di rado rispettate, da noi queste spese sono contabilizzate al di fuori del bilancio pubblico e quindi sottratte a vincoli o restrizioni. Esemplare è in questo il modello Tav: lo Stato affida la concessione ad una società di diritto privato con capitale tutto pubblico (Tav Spa), la quale affida l’esecuzione dell’opera ad un contraente generale che elabora il progetto esecutivo e conduce a termine i lavori (a tempi e costi quantomeno quadruplicati rispetto alle stime iniziali). Alla fine esso viene retribuito e l’opera ritorna alla società iniziale a cui spetta il compito di recuperare i soldi che le banche hanno prestato attraverso gli utili che derivano dalla gestione del servizio. Se però gli utili non sono sufficienti a coprire il debito, per esempio perché i volumi di traffico ipotizzati si rivelano assolutamente irrealistici, tale debito diventa infine debito pubblico perché a garantirlo è il socio pubblico della società di diritto privato.
Nel frattempo i costi di ogni grande opera aumentano a dismisura, proprio a causa del gioco di scatole vuote delle imprese intermediarie, che consente la creazione di prebende, appalti, subappalti, favori ed accumulo di fondi neri per oliare la politica, elemento fondamentale per perpetuare il processo. Inoltre è impossibile stimare con precisione i costi effettivi delle grandi opere: il costo è calcolato per ogni singolo lotto, con ogni singolo concessionario, non per l’opera in generale; cosicché la certezza di copertura finanziaria si ha solo per una parte del progetto, il che spiega la grande quantità di opere rimaste incompiute per mancanza di fondi.
Il project financing è insomma un sistema di garanzie pubbliche e di utili privati, ed è un sistema a debito in cui la leva finanziaria arriva per il 90% dai proponenti ed il settore pubblico, mascherato in società di diritto privato, è costretto a restituirlo alle banche a tassi d’interesse molto maggiori di quelli che pagherebbe in quanto Stato. I comuni vi ricorrono di continuo perché ciò consente loro di ricevere soldi nell’immediato, di chiudere i bilanci in attivo in quanto gli investimenti privati sono esclusi dai vincoli di stabilità e di vantare in campagna elettorale la costruzione di “importanti” infrastrutture. Così facendo però non fanno altro che spostare in avanti i costi e le tariffazioni che scaricheranno maggiorate in futuro sugli utenti. E i costi emergeranno dopo, con il pagamento dei canoni che le Pa pagano ai privati per usufruire dei servizi, mentre già tutte le comunità ne pagano i costi sociali e ambientali. Secondo l’Osservatorio nazionale dei contratti pubblici, la cifra risultante dai contratti di pf che andrebbe sommata all’effettiva contabilità pubblica e al rapporto deficit/pil ammonta a 200 miliardi di euro. Niente su cui scherzare, insomma…
La spinta nei confronti delle grandi opere viene dal grande capitale che per funzionare ha bisogno di costruire, di produrre, che non può mantenersi attraverso opere di manutenzione e restauro del territorio, un’attività diffusa che poggia sulla piccola e media impresa. Esso non ha bisogno di migliorare le strade esistenti, ma di costruirne di nuove, sempre più grandi, sempre a pagamento a pedaggi sempre più cari, per divorare nelle sue fauci anche quel poco territorio che ci è rimasto. Solo nel presente questo modello funziona, garantisce il privilegio, ma il suo peso enorme si scaricherà inevitabilmente sul prossimo futuro, sui nostri figli.

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